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Incertarum fabularum fragmenta (fr. 68)

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σοφόν [“e/ma se bevi acqua, non potrai creare nulla di buono”], ricondotto
dalla quasi totalità della critica alla Pytine); vd. inoltre il fr. incertae sedis 688
di Aristofane, in cui, attraverso una metafora enologica (molto simile a quella
formulata da Frinico), il poeta ironizza sui gusti degli Ateniesi, più avvezzi al
“vino olezzante di fiori, maturo e dolce come il miele” «άνθ>οσμία καί πέπονι
νεκταροσταγεΐ) che non ai poeti duri ed aspri come i vini di Pramno che
“fanno contrarre le sopracciglia e stringere le viscere” (συνάγουσι τάς όφρύς
τε και την κοιλίαν). Particolarmente ricca è la bibliografia sulla simbologia
polare vino-poesia e acqua-poesia, per cui vd. ora l’utile selezione offerta da
Albiani (2002, p. 159 n. 1); sul motivo topico del poeta vinosus e, in quanto tale,
ispirato (dalla divinità) cfr. inoltre Degani 1984 [= 2002], pp. 174-175; Conti
Bizzarro 1999, pp. 73-77 (vd., in particolare, p. 77, per una breve discussione
sul frammento di Frinico).
È comunque singolare che la persona loquens paragoni a un vino asprigno
e duro (qual era appunto il Πράμνιος) un poeta come Sofocle, noto, soprattutto
tra i comici, con il nomignolo di “ape”: cfr. Soph. T 110, 112, e vd., supra, ad
fr. 32. Un’immagine che, forse, si spiega con l’intento da parte di chi parla di
mettere in risalto la genuinità dell’arte di Sofocle (così come schietto e genuino
era il vino di Pramno), di contro all’artificiosità della τέχνη di un altro ovvero
di altri poeti. D’altra parte, merita di essere ricordato che, per mezzo di una
metafora caratterizzata da un analogo simbolismo, Eschilo era equiparato al
κόλλοψ, alla “pelle dura del collo del bue”, in Ar. fr. 663 (per l’esegesi del
frammento aristofaneo cfr. Taillardat 1965, p. 444 [ad § 760]).
Il riferimento sub metaphora alla figura di Sofocle contenuto nel verso
aveva indotto Bergk (1838, p. 377) ad assegnare la citazione all’unica com-
media fra i dieci titoli di Frinico in cui è conservata un’altra menzione del
tragediografo, le Mousai (cfr. fr. 32). Così riteneva anche Meineke (1827, p. 10;
FCGI, p. 157), che, tuttavia, non escludeva la possibilità di ricondurre il passo
ai Tragàdoi (cfr. FCG II.1, p. 605; Ed.min., p. 239). Alle Mousai assegnava il
frammento Norwood (1931, p. 153). Incerto se riferire il verso alle Mousai
ovvero ai Tragàdoi si è ora mostrato Storey (FOC III, p. 77); mentre, non è
dato purtroppo sapere su quali basi Bowie (1995, p. 121 con n. 37) ascriveva
la citazione alle Poastriai.
γλύξις II sostantivo (attestato in ambito poetico unicamente in questo
passo e in Polyzel. fr. 13 [al plurale]) proviene dalla stessa famiglia semantica
di cui fa parte l’aggettivo γλυκύς (“dolce”). Erodiano (GrGrIII.2, p. 487.3-4) in-
forma che con il nome γλύξις si indicava un tipo di vino “leggero” (άνειμένος)
e “senza carattere” (άτονος), che era altrimenti noto come άπ<α>λόστομος
(così va integrato il vocabolo sulla base di Hsch. γ 681: si tratta di un hapax
legomenon in letteratura) ovvero γλεύξις (cfr. Paus.Gr. γ 9 Erbse: γλεύξις· οίνος
 
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