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Μούσαι (fr. 35)

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κάν Crasi per καί έν. L’uso di tale forma univerbata, comune in greco, è
ben documentato in commedia: cfr. Chion. fr. 1.2; Ar. Ach. 198, 257, 606 (x2),
V. 22, 23, 594, 639, 802, Pax 272, 642, Av. 525, 1005, Lys. 150, 557, 786, Ih. 83, Ec.
8, 135b, PI. 184; Eup. frr. 132.1, 335.1; Plato Com. fr. 230.2; Theopomp.Com. fr.
7.1; Alex. fr. 41.1; Amphis fr. 41.1; Dionys.Com. fr. 2.12; Ephipp. fr. 7.2; Diph.
fr. 136.10; Men. Per. 22, frr. 291, 759, 779, 836.2; Philem. frr. 60.1 (x2); Sosip. fr.
1.29, 46; Com.Adesp. fr. 707.3.
όξυβάφω Etimologicamente connesso dai moderni con l’aggettivo οξύς
(“acuto” e, detto di sapori ovvero odori, “aspro”, “agro”) e con la radice del
verbo βάπτω (che propriamente vale “immergere”, “intingere”), Γόξύβαφον
designava comunemente una scodella di ridotte dimensioni utilizzata per con-
tenere “aceto” (όξος), in cui era possibile “intingere” (βάπτω) piccole porzioni
di cibo (in sostanza, era l’equivalente dell’odierna salsiera). All’occorrenza,
poteva essere riadattato apiatto «to serving relishes [...] or dips of other sorts»
(Olson/Sens 2000, p. 47 [adfr. 9.1]). Sull’impiego degli ossibafi nel gioco del
cottabo vd., supra, ad Contesto della citazione. Le fonti antiche registrano per
il termine anche una valenza metrologica: Γόξύβαφον era infatti un’unità di
misura per liquidi, corrispondente, in Attica, a un quarto di cotile (= c. 0,068
1: in merito cfr. Becher 1942). Ateneo (XI. p. 494b-e) informa che il sostantivo
designava altresì una coppa potoria dalla forma simile a una piccola kylix
di terracotta (είδος κύλικος μικράς κεραμέας: cfr. Cratin. fr. 199; Ar. fr. 75;
Antiph. fr. 161; Eub. fr. 65.2).
τρεις χοίνικας ή δύ(ο) La “chènice” (χοΐνιξ) era un’unità di misura per
aridi, equivalente, nel sistema metrologico attico, a quattro cotili (= c. 1,01 1):
cfr. X. An. I. 5. 6; vd. Hultsch 1889; Mlasowsky 1997. Il termine designava
inoltre il recipiente di forma cilindrica in genere usato per effettuare le misu-
razioni: cfr. IG Π2 1013.21, 22; schol. [RVEMatrBarb; Aid.] Ar. PI. 276c.
αλεύρων Con il neutro άλευρα (il termine è attestato quasi esclusiva-
mente al plurale; per la forma singolare, cfr., e.g., Ar. fr. 52; Sotad. fr. 1.24) i
Greci indicavano la “farina di grano tenero” (o “farina bianca”), che veniva in
genere ben distinta dalΓάλφιτα (la “farina d’orzo”): cfr. Hdt. VII. 119. 2; vd.
inoltre Plato, R. 372b; X. Cyr. V. 2. 5. Utilizzata principalmente per la fabbri-
cazione del pane (specialmente per la preparazione del cosiddetto άλευρίτης:
cfr. Diph.Siph. fr. 1 Garcia Làzaro [su tale varietà di pane e sul suo valore

w. 725-728), Uccelli (cfr. w. 460-461 ~ 548-549, 462-522 ~ 550-610; vd. inoltre i
vv. 626-627: inizio della sphraghis), Lisistrata (cfr. vv. 484-485 ~ 549-550, 486-531 ~
551-597); nel katakeleusmós ed epirrema degli agoni di Ecclesiazuse (cfr. w. 581-582,
583-688) e Pluto (cfr. w. 487-488, 489-597), che mancano di antikatakeleusmós ed
antepirrema.
 
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