Κωμασταί (fr. 14)
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Bibliografìa Casaubon 1600, p. 563.51; Hemsterhuys Anecd., p. 32; Bergk
1838, p. 367; Meineke FCG ILI, p. 587 [Κωμ. fr. ii]; Meineke Ed.min., p. 230
[Κωμ. fr. ii]; Bothe PCGF, p. 212 [Κωμ. fr. 3]; Kock CAF1, p. 374; Blaydes Adv. I,
p. 44; Blaydes Adv. II, p. 52; Edmonds FACI, pp. 456-457 [fr. 14]; Kassel/ Austin
PCG VII, p. 401; Storey FOCIII, pp. 56-57 [fr. 14]; Pellegrino 2013, p. 45
Contesto della citazione Questo trimetro giambico è citato da Polluce nella
sezione del IV libro dell’ Onomasticon riservata alla classificazione dei vari tipi
di “canti di lavoro” come testimonianza del fatto che Frinico, nei Kómastai,
faceva menzione del canto denominato πτιστικόν.
Testo II testo del frammento riflette la paradosis di S, un manoscritto col-
lazionato dall’umanista A. Schott (1552-1629) e portato per la prima volta
all’attenzione della comunità scientifica da J.H. Lederlin e da T. Hemsterhuys
nella loro edizione di Polluce del 1706. Prima di allora, la citazione era letta
come εγώ δέ νων δή τερετιώ πτιστικόν, secondo la vulgata di Manuzio (1502,
pp. 146.56-147.1), che ricavava quella lettura dal suo modello (Ξ nell’edizione
di Bethe), un esemplare contaminato (ora tuttavia perduto), che, nel punto in
questione, attingeva verosimilmente al testo di un codice imparentato con A
(per la storia del manoscritto su cui Manuzio fondò la sua edizione dell’Ono-
masticon, cfr. Bethe I, p. xiii).
Per quanto risulti ineccepibile e per il senso e per il metro, la citazione è
stata comunque sottoposta a interventi correttivi da parte di alcuni studiosi,
desiderosi di “migliorare” la paradosis di S: così, per es., Hemsterhuys (Anecd.,
p. 32), al quale faceva forse difficoltà il poliptoto iniziale εγώ δέ νων, proponeva
di leggere έγώ δέ νϋν; un intervento analogo suggeriva in un primo momento
anche Blaydes (Adv. I, p. 44): έγώ δέ νυνί, salvo poi optare per una soluzione
più costosa: έγώ δέ γ’ ύμϊν (Adv. II, ρ. 52). I paralleli offerti dal fr. 8 di Nicofonte
(άλλ’ ϊθι προσαύλησον σύ νων πτισμόν τινα) e dal fr. 211 di Aristofane (έγώ
|δενωνψ / πέμψω πλακουντ’ εις εσπέραν χαρίσιον; al ν. 1, si ritiene pressoché
unanimemente di dover restituire la locuzione έγώ δέ νων, congetturata da R.
Bentley [ap. Graeve 1697, p. 385]: cfr. le notazioni di Cassio [1977, pp. 52-53,
ad fr. 5] e di Kassel/Austin [PCG III.2, p. 129]) sembrano però confermare la
correttezza del testo έγώ δέ νων. Ad essere emendata è stata anche la pericope
τι πτιστικόν, che Kock (CAPI, p. 374) preferiva leggere come το πτιστικόν,
con la seguente spiegazione: poiché risulta improbabile che esistessero «plura
πτιστικά», Frinico non avrebbe avuto alcun motivo di parlare di uno πτι-
στικόν, essendoci un solo canto con quel nome, lo πτιστικόν. Al di là della
motivazione fondata su basi puramente congetturali, è però ancora una volta il
confronto con il fr. 8 di Nicofonte (πτισμόν τινα) a rendere superfluo il tentati-
vo di riscrittura esperito da Kock, verso cui, peraltro, non pochi dubbi nutriva
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Bibliografìa Casaubon 1600, p. 563.51; Hemsterhuys Anecd., p. 32; Bergk
1838, p. 367; Meineke FCG ILI, p. 587 [Κωμ. fr. ii]; Meineke Ed.min., p. 230
[Κωμ. fr. ii]; Bothe PCGF, p. 212 [Κωμ. fr. 3]; Kock CAF1, p. 374; Blaydes Adv. I,
p. 44; Blaydes Adv. II, p. 52; Edmonds FACI, pp. 456-457 [fr. 14]; Kassel/ Austin
PCG VII, p. 401; Storey FOCIII, pp. 56-57 [fr. 14]; Pellegrino 2013, p. 45
Contesto della citazione Questo trimetro giambico è citato da Polluce nella
sezione del IV libro dell’ Onomasticon riservata alla classificazione dei vari tipi
di “canti di lavoro” come testimonianza del fatto che Frinico, nei Kómastai,
faceva menzione del canto denominato πτιστικόν.
Testo II testo del frammento riflette la paradosis di S, un manoscritto col-
lazionato dall’umanista A. Schott (1552-1629) e portato per la prima volta
all’attenzione della comunità scientifica da J.H. Lederlin e da T. Hemsterhuys
nella loro edizione di Polluce del 1706. Prima di allora, la citazione era letta
come εγώ δέ νων δή τερετιώ πτιστικόν, secondo la vulgata di Manuzio (1502,
pp. 146.56-147.1), che ricavava quella lettura dal suo modello (Ξ nell’edizione
di Bethe), un esemplare contaminato (ora tuttavia perduto), che, nel punto in
questione, attingeva verosimilmente al testo di un codice imparentato con A
(per la storia del manoscritto su cui Manuzio fondò la sua edizione dell’Ono-
masticon, cfr. Bethe I, p. xiii).
Per quanto risulti ineccepibile e per il senso e per il metro, la citazione è
stata comunque sottoposta a interventi correttivi da parte di alcuni studiosi,
desiderosi di “migliorare” la paradosis di S: così, per es., Hemsterhuys (Anecd.,
p. 32), al quale faceva forse difficoltà il poliptoto iniziale εγώ δέ νων, proponeva
di leggere έγώ δέ νϋν; un intervento analogo suggeriva in un primo momento
anche Blaydes (Adv. I, p. 44): έγώ δέ νυνί, salvo poi optare per una soluzione
più costosa: έγώ δέ γ’ ύμϊν (Adv. II, ρ. 52). I paralleli offerti dal fr. 8 di Nicofonte
(άλλ’ ϊθι προσαύλησον σύ νων πτισμόν τινα) e dal fr. 211 di Aristofane (έγώ
|δενωνψ / πέμψω πλακουντ’ εις εσπέραν χαρίσιον; al ν. 1, si ritiene pressoché
unanimemente di dover restituire la locuzione έγώ δέ νων, congetturata da R.
Bentley [ap. Graeve 1697, p. 385]: cfr. le notazioni di Cassio [1977, pp. 52-53,
ad fr. 5] e di Kassel/Austin [PCG III.2, p. 129]) sembrano però confermare la
correttezza del testo έγώ δέ νων. Ad essere emendata è stata anche la pericope
τι πτιστικόν, che Kock (CAPI, p. 374) preferiva leggere come το πτιστικόν,
con la seguente spiegazione: poiché risulta improbabile che esistessero «plura
πτιστικά», Frinico non avrebbe avuto alcun motivo di parlare di uno πτι-
στικόν, essendoci un solo canto con quel nome, lo πτιστικόν. Al di là della
motivazione fondata su basi puramente congetturali, è però ancora una volta il
confronto con il fr. 8 di Nicofonte (πτισμόν τινα) a rendere superfluo il tentati-
vo di riscrittura esperito da Kock, verso cui, peraltro, non pochi dubbi nutriva