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Τραγωδοί ή Απελεύθεροι (fr. 52)

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βεμβράδες II termine βεμβράς (ο μεμβράς: su questa variante, docu-
mentata da Athen. VII. p. 287e-f, con esempi tratti dalla letteratura comica
[cfr. Eup. fr. 31; Antiph. fr. 123.3, 6; Alex. fr. 200.3, 260.2], vd. Stròmberg 1943,
p. 68) designava un tipo di pesce, che i moderni ittiologi hanno suggerito di
identificare con l’acciuga (o alice: Engraulis encrasicolus L.), con lo spratto
(noto anche come “papalina”: Sprattus sprattus, L.) ovvero con il latterino
(Atherina hepsetus L.). Era un’usanza consolidata presso i Greci indicare pesci
dotati di squame particolarmente lucenti con nomi che richiamassero alla
mente il colore di alcuni metalli (su tutti, oro e rame/bronzo [χαλκός]): cfr., per
es., il composto χρύσοφρυς, che designa l’orata (Sparus aurata L.; Chrysophrys
aurata Valenciennes; il nome vale letteralmente “(pesce) dai sopraccigli dora-
ti”), altrimenti detta χρυσωπός (Plut. De sollertia animalium 977f); vd. inoltre
il nome χαλκεύς, che indica il pesce San Pietro o pesce gallo (Zeus faber L.),
un tipo di pesce caratterizzato da una livrea color bronzo (cfr. Thompson 1936,
s. v., pp. 281-282): sulla pratica linguistica greca di dare ai pesci nomi derivati
da metalli vd. Stròmberg 1943, pp. 26-27. Su queste basi, non sarebbe affatto
insensato ritenere che, nel frammento, l’epiteto χρυσοκέφαλος possa essere
allusivo a una peculiarità cromatica della βεμβράς, che, a questo punto, nulla
vieterebbe di identificare con l’acciuga, pesce noto per la presenza di alcune
sfumature dorate in prossimità della testa: cfr. Campbell 1983, pp. 266-267 (tale
specie ittica si caratterizza inoltre per avere i fianchi e la pancia di una tonalità
biancastra e, non a caso, con l’aggettivo πολιόχρως [“biancastro”] è definita
l’acciuga in Ar. fr. 140). La βεμβράς/μεμβράς era considerata dagli antichi un
pesce di scarso pregio (cfr., e.g., Alex. fr. 260.2) e, quindi, a buon mercato (cfr.,
e.g., Aristomen. fr. 7; Aristonym. fr. 2.2; vd. anche Thompson 1947, s.v. βεμ-
βράς, p. 32; Ehrenberg 1951, p. 131 con n. 6 [= 1957, p. 187 con n. 151]; Arnott
1996, p. 578 [ad fr. 200.3]; Garcia Soler 1997, p. 282 e n. 12 [cfr. Garcia Soler
2001, pp. 161-162]); era inoltre una componente essenziale della βεμβραφύη
(cfr. Dorio fr. 4 Garcia Làzaro; Aristonym. fr. 2.1-2, con Kassel/Austin PCG
II, p. 572), una variante άεΙΓάφύη, «a dish of small fry, fish so small that they
could be tossed into a hot skillet (teganorì) whole in large numbers» (Dalby
2003, p. 15).
θαλάσσιαι L’aggettivo è attestato fin dagli albori della letteratura greca
(cfr., e.g., II. 11.614, Od. V.67; Archil. frr. 116 [vd. però Bossi 1990, pp. 221-222],
214 W2.; Ale. fr. 359.4 Voigt; Thgn. 1229 W2.; Pi. N. 3.59) e vanta un largo
impiego nella poesia tragica, dove ricorre nella forma a due terminazioni (cfr.,
e.g., Eur. IT 236) ovvero a tre (cfr., e.g., Aesch. Prom. 924; Eur. Hec. 698, IT
1192, 1327, fr. 885). Nei testi comici è invece di norma impiegata la grafìa
attica θαλάττ-: cfr., e.g., Ar. Av. 1333, PI. 396; Plato Com. fr. 143.2 (l’epiteto
serve a qualificare il tragediografo Carcino: vd. Pirrotta 2009, pp. 285-287);
 
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