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Incertarum fabularum fragmenta (fr. 61)

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Dioclide e Teucro, due figure-chiave nel processo agli ermocopidi, responsabili
con le loro delazioni di numerosi arresti e condanne: con il chiaro intento di
movere risum, il commediografo, per bocca dei suoi due personaggi, sembra
dunque voler ironizzare sul clima da ‘caccia alle streghe’ che maturò in città
aH’indomani dei fatti del 415 a. C., mettendo alla gogna le decisioni dell’allora
classe dirigente, che, come si è già detto, pur di ottenere informazioni sugli
autori di quegli empi gesti, non esitò a incentivare le denunce con la promessa
di cospicue ricompense in denaro ricavate dall’erario pubblico; una soluzione
politica che, di fatto, fece gola a parecchi individui senza scrupoli - e tali si
dimostrarono Dioclide e Teucro -, attratti dall’idea di ricavare lauti e facili
guadagni a danno di innocenti cittadini.
L’esplicito riferimento agli scandali del 415 a. C. e al processo che ne seguì
rende tale data un sicuro terminus post quem per la cronologia del dramma da
cui sono desunti i citati trimetri: in ragione di ciò, Meineke (FCGI, p. 155; FCG
ILI, p. 603; Ed.min., p. 237) suggeriva di ricondurre il frammento al Monotropos
(così già Droysen 1835, p. 192 n. 17 [= 1894, p. 23 n. 17]) ovvero, più prefe-
ribilmente, ai Kdmastai (che lo studioso identificava con l’omonima pièce di
Amipsia, che ottenne il primo premio alle Dionisie del 414 a. C.: vd., supra,
ad I Kdmastai di Amipsia e di Frinico). Sulla scorta del pensiero di Meineke,
la critica successiva ha ipotizzato di restituire i versi all’una ovvero all’altra
commedia, per quanto vada registrata una certa preferenza per l’assegnazione
del frammento ai Kdmastai: cfr., per es., De Gubernatis 1883, p. 277; Denis 1886,

vivus sit». Lo scenario figurato da Kock è stato vigorosamente respinto da Kassel
(1983, p. 7 [= 1991, pp. 146-147]), sulla base del presupposto che, se Aristofane
non portò mai in scena una statua effettivamente parlante, come proverebbero
Nu. 1478-1485 e Pax 661-705 (vd. nota precedente), afortiori non avrebbe potuto
farlo nemmeno Frinico («Muten wir also nicht dem Phrynichos zu, was selbst die
szenische Phantasie des Aristophanes nicht gewagt hat»): la sua conclusione è che
un attore impersonante Ermes venisse apostrofato e parlasse di se stesso come
fosse una statua, analogamente a quanto avviene in Ar. PI. 1152-1153, dove Ermes,
impersonato da un attore in carne e ossa, chiede asilo fra gli uomini proponendosi
come στροφαϊος, epiteto tradizionalmente usato in riferimento alle statue di Ermes
(in merito vd. ora Di Bari 2013, p. 257 n. 123). Inutile dire che, in assenza di un
contesto di riferimento per il passo, non è possibile smentire né confermare le ipotesi
di Meineke, di Kock e di Kassel, ciascuna delle quali presenta punti deboli e punti
forti, opportunamente discussi ora da Di Bari (2013, pp. 259-260), la quale si dichiara
favorevole all’idea che il frammento anepigrafo di Frinico contemplasse la presenza
scenica di «una statua parlante di Ermes», la cui voce sarebbe stata prodotta da un
attore «celato dietro l’effige» ovvero da un «interprete retroscenico» (p. 260).
 
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